Palazzo Mocenigo
Tuttavia la più caratteristica figura legata al palazzo è quella di Lord Byron. A parte i molti amori e bizzarrie che lo resero famoso a Venezia durante i suoi soggiorni, fra il 1816 e il 1819, qui egli scrisse parecchie delle sue splendide poesie. Egli aveva l’abitudine di rincasare la notte nuotando, mentre il suo domestico lo seguiva in gondola con gli abiti in mano. Non fa quindi meraviglia che nel 1818 accettasse una sfida sportiva: partendo dal Lido, percorse a nuoto la laguna e risalì il Canal Grande fino all’altezza del palazzo in cui dimorava. È, appunto, in ricordo di questo episodio che fino al 1949 si disputò sullo stesso percorso un’annuale Coppa Byron.
I Mocenigo furono una grandissima e giustamente orgogliosa famiglia, la cui discendenza maschile si è spenta agli inizi del Novecento; fu una delle 16 cosiddette "ducali"; potente fin dal XII secolo. Fu seconda solo ai Contarini in fatto di dogi, infatti essa ne diede ben sette alla Repubblica. Ebbe pure ventisette procuratori di San Marco, e da essa uscirono non solo insigni uomini politici, ma molti tra i più grandi capitani "da Mar", quale il "terror dei Turchi", Lazzaro, eletto alla suprema carica marittima a soli 32 anni per la sua eccezionale abilità e audacia, e morto eroicamente ai Dardanelli nel 1657; oppure Luigi, duca di Candia, che all’inizio della guerra con i turchi, alle grida d’allarme dei suoi per una grossa breccia aperta nelle mura dalle mine nemiche, brandì la spada e rispose fieramente: «E allora moriremo tutti: chi non è vile mi segua»; e i veneziani resistettero a Candia per ben 24 anni.
Il primo doge fu Tommaso (1414-1423), del quale è famoso il testamento politico con la descrizione della floridezza in cui, morendo, lasciava Venezia. Il secondo, altro grandissimo ammiraglio, fu Pietro (1474-1476). Avviato giovanissimo alla carriera di mare, s’era coperto di gloria e, come tanti altri, anch’egli era stato assente da Venezia per lunghi anni. Vedovo da tempo di Laura Zorzi, dalla quale non aveva avuto figli, si era portato dall’Oriente due schiave turche che con lui convissero fino alla sua morte. Da una di esse ebbe un figlio, Filippo, poi priore della Ca’ di Dio (ospizio dei pellegrini). Sicuramente ebbe altre concubine: infatti nel suo testamento, oltre alle due schiave citate alle quali legò un lascito e la libertà dopo quattro anni dalla sua morte, menzionò pure altre tre domestiche. Tuttavia, secondo le vedute tolleranti e liberali di Venezia, nessuno se ne meravigliò né egli ebbe alcuna noia per tale situazione considerata, dopotutto, il... riposo del guerriero. Gli altri dogi furono: Giovanni (1478-1485); Alvise I (1570-1577); Alvise II (1700- 1709); Alvise III (1722-1732), e Alvise IV (1763- 1778). I dogi Mocenigo sono sepolti nella basilica di San Giovanni e Paolo. Questa famiglia diede tanti e così notevoli guerrieri che un poeta cantò:
«Nome famoso, e conto Ovunque il sangue per la patria versato onor riceve Mocenigo! Risuona in questo il nome di molti prodi...».
È molto probabile che il palazzo preesistente a quello della “Casa nuova” risalisse alla seconda metà del Quattrocento; la rifabbrica, avviata per adeguare la residenza alla dignità di Alvise I Mocenigo, il doge in carica durante la vittoriosa battaglia di Lepanto contro i turchi, ancora non era terminata nel 1579, ovvero due anni dopo la fine del suo dogado.
Per lungo tempo questa costruzione fu attribuita erroneamente ad Andrea Palladio ma è certo che colui che la ideò certamente conosceva e ammirava l’arte del grande architetto padovano, dato che ne trasse ispirazione a piene mani. Si sono fatti molti nomi, da Guglielmo De Grigis a Giovanni Antonio Rusconi, ma sulla paternità dell’opera non c’è alcuna certezza. In effetti molti elementi, nella facciata sul Canal Grande (forse compiuta solo nei primi anni del Seicento), concorrono a rimandare all’opera palladiana: le ampie finestre col timpano alternativamente triangolare o curvo, le serliane sovrapposte, le specchiature in pietra fra le diverse aperture e la minuzia nella lavorazione della materia, tutti elementi che erano molto cari al grande maestro. I due piani nobili sono sottolineati dai poggioli continui della serliana posta al centro; una grande quantità di cornici e profili dividono i muri in riquadri di diverse dimensioni che danno un effetto dinamico al disegno. Anche in questo edificio, come in quello detto “Casa vecchia”, erano presenti due slanciati obelischi sul tetto, oggi scomparsi.
Questo raffinato palazzo fu costruito in funzione delle grandi feste e dei ricevimenti che vi si tenevano periodicamente con grande sfarzo: proprio la scenografica distribuzione di scale e scaloni che danno accesso ai vari piani e la maestosità dell’atrio fanno pensare a questo. E si ricorda, in particolare, la grande festa data da Pisana Corner Mocenigo in onore del re di Polonia Federico Augusto in visita di stato a Venezia: un ricevimento che ebbe vasta eco in tutta Italia e perfino in Europa per il grande sfarzo e il lusso che lo caratterizzarono.
Internamente le varie proprietà Mocenigo furono raccordate sistematicamente solo nel 1778, quando un altro Alvise divenne Procuratore di San Marco; prima di tale data, infatti, essi comunicavano solo parzialmente. Più recentemente è stata costruita un’ampia terrazza lungo il profilo superiore dell’edificio, in stile, allo scopo di mascherare un attico di tipo moderno, non molto in tono con il carattere della fabbrica.
Gli interni, come si può facilmente immaginare, erano arredati riccamente e con raffinata eleganza. I Mocenigo, infatti, erano grandi collezionisti d’arte e di mobili di pregio, oggetti che, quando il ramo della casa nuova si estinse nel 1878, passarono per eredità ai Robilant i quali, però, li dispersero in una grande vendita all’asta. Alcune di queste opere, inoltre, andarono disperse durante la prima guerra mondiale.
Oggi, nell’atrio di uno dei quattro palazzi Mocenigo, svetta una grande statua di Napoleone raffigurato nelle vesti di un imperatore romano, con l’aquila e lo scettro. Fu Alvise Mocenigo a commissionarla allo scultore milanese Angelo Pizzi, anche se comunemente è attribuita al Canova.