Palazzo Falier
I Falier, estinti in questo secolo, furono un’antichissima famiglia, una delle dodici “apostoliche“ e, già nel lontano 697, Paoluccio Anafesto dei Falier era stato eletto doge a Eraclea con il beneplacito di Bisanzio. Ma i “veri” dogi della Civitas Venetiarum di questo casato furono tre: Vitale (1084-1096), sotto il cui dogado venne consacrata la terza e definitiva Basilica di San Marco nel 1094; Ordelaffo (1102-1118), anch’egli uomo di grande energia e valore che, come Vitale, acquisì per Venezia grandi privilegi aiutando il Basileus nella sua lotta contro i normanni e battendo Roberto il Guiscardo. Ebbe il titolo di Duca di Croazia ed estese la signoria veneziana su Zara, togliendola ai magiari. Le sue due spedizioni in aiuto di Baldovino re di Gerusalemme valsero a Venezia due fondaci, a Sidone ed Acri, per mezzo dei quali il commercio veneziano poté espandersi più rapidamente nel Levante. Egli aveva fatto eseguire dagli artisti di Costantinopoli, e successivamente portata in patria, la stupenda Pala d’Oro che ancor oggi si ammira in San Marco. Ma sua gloria imperitura è la fondazione di quell’Arsenale dal quale per 700 anni uscirono i gloriosi navigli della Serenissima.
La famiglia era ricca e potente quando la tragica fine del terzo doge, Marino, ne provocò l’eclisse politica (eletto il 15 ottobre 1354, fu giustiziato il 17 aprile 1355).
Ai tempi in cui Marino fu eletto doge, l’Italia era turbata da fermenti politici dovuti all’affermarsi delle signorie di condottieri e principi ambiziosi e Venezia era più vigile che mai, gelosissima della sua indipendenza e decisa a sottrarsi ad ogni forma di tirannia: tale stato d’animo spiega in parte la sua severità, che apparve eccessiva a molti, incluso il Petrarca. Il conte e patrizio Marino Falier, allora settantenne, era ancora forte e vigoroso, di bella presenza, colto e generoso. Aveva alle spalle un brillante passato come uomo d’armi e diplomatico. Era pure un ricchissimo e fortunatissimo mercante che aveva viaggiato a lungo sulle sue navi dai preziosi carichi di panno, frumento, allume, legname e in genere di tutto quanto era possibile commerciare, affrontando, come ogni mercante veneziano, i rischi del mare e dei pirati insieme coi suoi equipaggi. A lui la Signoria aveva dato incarico di far giustiziare i congiurati Querini e Tiepolo nel 1310, e ciò può sembrare un monito del destino. Altro segno interpretato dal popolo come presagio di sventura fu quando nel 1354, appena eletto doge, scese dal Bucintoro per prendere residenza nel Palazzo Ducale, ma nella confusione della cerimonia passò inavvertitamente tra le due colonne dove avvenivano le esecuzioni.
A Venezia vi era una forte tensione fra le famiglie “vecchie“ e quelle “nuove“, sorta in seguito alla Serrata del Maggior Consiglio del 1297, e una piccola provocazione sarebbe bastata per far divampare gli animi. La scintilla che provocò il precipitare degli eventi scoccò - secondo quanto ci narra Marin Sanudo - quando durante una festa da ballo data a Palazzo Ducale dal doge e dalla sua giovanissima moglie Alvica Gradenigo, uno dei giovani patrizi, Michele Steno, poi doge, importunò una dama in modo così audace che il doge lo fece espellere dalla festa. L’iratissimo Steno nell’andarsene lasciò sul muro una scritta ingiuriosa ed immeritata: «Marin Falier, da la bella mugier, i altri la gode e lu la mantien». La condanna che il tribunale inflisse al giovane - un mese di carcere, 100 lire venete di multa e parecchie staffilate - fu ritenuta troppo lieve dal doge, che la considerò un insulto personale. E fu per desiderio di vendetta, forse per ambizione, per stroncare la potenza aristocratica ed impossessarsi del potere assoluto, che Marino organizzò una congiura che all’ultimo momento venne scoperta: i congiurati patrizi pagarono con la vita, mentre i popolani ebbero poi un completo perdono. Nel testamento, scritto prima della decapitazione, il doge volle far pubblica testimonianza della onestà della moglie, nominandola sua esecutrice testamentaria. I suoi beni personali vennero confiscati. Erano trascorsi appena sei mesi dalla sua elezione. In un libro ufficiale una pagina bianca reca due sole parole che lo riguardano: “non scribatur“; e nella collezione dei ritratti dogali della sala del Maggior Consiglio, l’effigie di Marino fu coperta da un drappo nero e vi si legge: “Hic est locus ser Marin Faletri decapitati pro criminibus“. Alvica, ritiratasi ad invecchiare in solitudine, morì pazza.