Palazzo Donà
I Donà sono famiglia antichissima, di origine romana, tuttora esistente. Venne annoverata fra le "nuove" benché fosse tra quelle che fondarono la nuova Venezia sulle isole di Rialto agli inizi del IX secolo e fosse inclusa nel Libro d'Oro al tempo della Serrata. Nel XIII secolo si divise nei rami principali dei Donà dalle Tresse (le fasce sullo stemma gentilizio) e Donà dalle Rose. Diede alla Repubblica personaggi importanti in tutti i campi e tre dogi: Francesco (1545-1553), Leonardo (1606-1612), e Nicolò, suo figlio (1618). Quest'ultimo morì dopo soli 34 giorni di dogado, si dice di dispiacere. Egli aveva un nipote, Pietro, figlio di un fratellastro, che si occupava degli affari di famiglia ed era avarissimo. Quando lo zio salì al dogado, a lui venne affidata la gestione della nuova situazione, ma ad una festa data a Palazzo Ducale mancarono i consueti doni per le signore; ad un'altra molte patrizie furono respinte con la scusa che non erano state invitate; quello che doveva essere un grande banchetto risultò un modesto pranzo a base di pesce. Il doge ne fu talmente umiliato da morirne, cosa di cui approfittò prontamente l'indegno nipote, che vendette il manto dogale dello zio non ancora sepolto.
Il più importante doge dei Donà fu certamente Leonardo, anzi possiamo senz'altro affermare che egli fu uno dei più grandi dogi di Venezia. Era un abilissimo politico, un oratore affascinante e fra i vari incarichi assolti, vi era stato anche quello assai difficile presso la corte papale dove, senza poter cambiare le decisioni della Serenissima, aveva dovuto destreggiarsi tra accuse e minacce a causa dell'asilo politico accordato da Venezia a Marco Sciarra. La reazione era stata così accesa, che l'allora cardinale Camillo Borghese disse al Donà che se mai fosse divenuto papa avrebbe scomunicato il Senato, al che il Donà aveva ribattuto che se in quel tempo egli fosse stato doge in carica, la scomunica sarebbe stata ignorata. Poi Camillo Borghese salì al soglio pontificio col nome di Paolo V (1605-21) e si accinse a piegare l'assoluta indipendenza laica di quello staterello lagunare che, apparentemente ossequioso, si sottraeva ad ogni dettame della Chiesa. Una legge soprattutto lo irritava, ed era quella che proibiva la cessione, sotto qualsiasi forma, di beni immobili a religiosi, impedendo così ogni espansione di proprietà ecclesiastiche in Venezia. Non solo, ma non si poteva erigere chiese senza l'autorizzazione del Gran Consiglio.
L'occasione finalmente si presentò: due sacerdoti veneziani avevano commesso dei crimini - uno di essi, Marcantonio Brandolin, era addirittura pluriomicida - e la Serenissima si approntava a processarli; la Santa Sede intervenne accampando il diritto di essere la sola a poter giudicare, trattandosi di ecclesiastici. Se Venezia avesse ceduto, sarebbe stata una rinunzia alla sua indipendenza e sovranità: d'altra parte era chiaro che il papa si serviva di un espediente per cacciarla in una via senza uscita e raggiungere i suoi scopi. Venezia decise quindi di inviargli il suo più abile diplomatico, conoscitore degli intrighi della corte papale, per rispondere all'ultimatum che esigeva la consegna dei due colpevoli e l'abolizione di quelle leggi ritenute lesive degli interessi della Chiesa. La scelta cadde su Leonardo Donà. Ma mentre egli si accingeva a partire per Roma, il doge Marino Grimani morì e fu proprio Leonardo Donà, subito eletto, a ricevere la pesante eredità del grave conflitto fra Repubblica e Papato. Così, all'improvviso, i due antichi nemici, entrambi uomini dotati di eccezionale carattere, si ritrovarono faccia a faccia dall'alto delle nuove posizioni di potere.
La scomunica lanciata da Roma passò su Venezia come una goccia d'olio sull'acqua, ma rimbalzò di colpo sui Gesuiti, lasciando il papa esterrefatto. Come prima aveva fermamente respinto ogni richiesta di Paolo V, ora il doge respingeva scomunica e interdetto. Non solo, ma proibiva che ne venisse esposto il bando, ordinava ai religiosi di procedere nelle loro normali attività senza tenerne conto; non un cero doveva essere spento, non una porta di chiesa sbarrata, matrimoni, nascite, morti celebrati come di consueto. Era un ordine che - conoscendo la fermezza della Signoria - nessuno poteva ignorare. Tuttavia i Gesuiti si rifiutarono di obbedire e immediatamente furono banditi dai territori veneziani. La notizia sollevò un enorme scalpore minacciando di dilatarsi ancor più: quando le altre nazioni ripresero il fiato, la Spagna offrì le sue truppe al papa, l'Inghilterra fu solidale con Venezia e la sollecitò a crearsi una Chiesa propria, mentre il Sultano turco da parte sua offriva di combattere con Venezia contro Roma. Intanto Venezia, impassibile, mobilitava le sue truppe. Allora la Francia, allarmata, mandò i suoi più abili diplomatici a contattare i due antagonisti per cercare di calmare le acque, e con un finissimo lavorio diplomatico giunse a "salvare la faccia" ad entrambi: il re di Francia chiese alla Serenissima come favore personale di avere in consegna i due colpevoli dei quali, più tardi, fece omaggio alla Santa Sede.
In tal modo Venezia si liberò magistralmente di due gaglioffi ingombranti, senza cedere a nessuna delle ingiunzioni papali, e fece cosa gradita ai francesi senza offendere quelle nazioni che avevano offerto aiuti e consigli. Il papa dovette accettare la parvenza di vittoria riguardo alle sue pretese sui due religiosi, e digerire la reale sconfitta su tutto il fronte, aggravata dal fatto che i Gesuiti restarono al bando. Inoltre rimosso in tal modo l'espediente che dava ragione delle sue ire, Paolo V, suo malgrado, dovette revocare l'inefficace scomunica e l'interdetto. Leonardo Donà, prendendo atto della revoca, davanti al Gran Consiglio dichiarò freddamente che, dopotutto, Venezia non aveva dato importanza all'anatema papale, quindi non vedeva alcuna ragione di rallegrarsi per la cessazione del medesimo, e il Senato approvò.