Ca' Favretto
Il nome originario dei Bragadin è Ipato, cambiato nell'VIII secolo. È una delle 24 famiglie «vecchie» che fondarono Venezia e che quindi sono legate a tutta la storia della Serenissima, dalle sue origini al tempo presente, con discendenti tuttora viventi. Anzi, essa appartenne alle quattro famiglie «evangeliche» che avevano firmato l'atto di fondazione nel 725. Dopo i due dogi eletti col beneplacito del Basileus bizantino, Orso Ipato si può considerare il primo vero doge dei veneziani, poiché dai veneziani soli, in piena indipendenza, egli fu eletto nel 726 nell'allora capitale Eraclea.
L'importanza della neonata Repubblica è sottolineata dal fatto che Orso, pienamente conscio di come una Bisanzio nemica sarebbe stata fatale alla sopravvivenza di Venezia, per attutire gli effetti dell'avvenuto sganciamento dalla tutela dei bizantini, portò aiuto a questi ultimi scacciando i loro nemici longobardi da Ravenna. Il secondo doge, eletto nel 742, fu ancora un Ipato, Teodato, il quale trasferì la capitale in zona più sicura, a Malamocco.
Come si vede, questa famiglia, insieme ad altre, documenta un'antichità quale nessun altro casato europeo può vantare. Da essa uscirono esperti amministratori, diplomatici ed eccezionali comandanti, fra i quali Andrea, che conquistò Cipro nel '400, e il più famoso, perché più sfortunato, Marc'Antonio. Questi, dopo aver ricoperto importanti cariche, si trovò, all'età di circa 50 anni, a essere governatore di Famagosta nel momento più tragico della città. I turchi, dopo aver conquistato Nicosia e trucidato 20.000 abitanti, l'avevano infatti posta d'assedio. Dopo un anno di massicci attacchi e selvaggi bombardamenti, che costarono la vita a oltre 100.000 turchi, dei 7.000 difensori veneziani restavano 700 uomini stremati e affamati ma disposti a difendersi fino alla morte. A questo punto Lala Mustafà propose una resa onorevole. Cedendo alle invocazioni delle donne e dei bambini, che altrimenti sarebbero stati ammazzati come quelli di Nicosia, l'ammiraglio Marc'Antonio accettò la proposta. Prima, però, egli scrisse l'ultima lettera di addio ai suoi cari e l'ultima relazione al doge che una veloce fusta riuscì nella notte a portare al di là dell'accerchiamento e successivamente a Venezia. E dieci giorni dopo, la mattina di quel fatale 31 luglio 1571, egli si arrese con i suoi. Ma il turco, inferocito dalla perdita di un gran numero di guerrieri mussulmani, non rispettò i patti: i cristiani furono tutti trucidati e così pure gli ufficiali veneziani. A Marc'Antonio, Musatafà personalmente tagliò gli orecchi, poi lo fece sottoporre ai più feroci supplizi per quindici giorni, aspettando che il veneziano invocasse clemenza e svelasse i segreti militari della Repubblica. Quando si rese conto che quell'eroico relitto umano non avrebbe ceduto, lo fece spellare vivo. L'atroce tortura fu eseguita lentamente per togliere la pelle tutta intera. Marc'Antonio, che senza mai un lamento aveva guardato in faccia i suoi carnefici, finalmente spirò quando essi giunsero alla vita. Per dispregio e spirito di vendetta, la sua pelle conciata e riempita di paglia fu appesa al pennone della nave ammiraglia turca e portata poi a Costantinopoli dove, anni dopo, un "commando" veneziano riuscì a trafugarla e portarla a Venezia. Si trova tuttora nell'urna che corona il monumento sepolcrale a Marc'Antonio Bragadin nella basilica di San Giovanni e Paolo.
Vale la pena di riportare qualche brano della lunga lettera che Girolamo Polidoro, il trafugatore della pelle, scrisse al Senato il 13 febbraio 1587, cioè sedici anni dopo la terribile fine del suo ammiraglio: «Io, Hieronimo Polidoro da Verona, fatto schiavo in servizio della Serenissima... e non scordando nella mia schiavitù la divotione mia, né atterrendomi a nessun pericolo, sono stato quello felicissimo martire, il quale, a richiesta dell'illustrissimo Tiepolo allora Bailo in Costantinopoli, levai da una cassa dell'arsenale la pelle del clarissimo Bragadin, e di quella sotto i panni vestitomi, la portai salva ed intera all'illustrissimo Bailo, con questo atto di virtù e ardimento significando con certezza di morte la infinita divozione che porto alla Serenità vostra. Quello che mi sia successo dopo è orribile ad ascoltare... accusato di questo lecito furto ai ministri turcheschi ho patito innumerevoli... fieri tormenti, imperoché per mólti giorni fui torturato alla corda con li piedi in su, bastonato sul ventre e sulla schiena... battuto sulla natura che si guastò, ed io divenni eunuco... Dopo i tali tormenti tutto guasto e rovinato e in mendicità... mi sono finalmente condotto ai piedi della Serenità vostra, la quale supplico...». Il Polidoro ebbe una pensione di cinque ducati al mese.