Ca' d'Oro
Un tempo, percorrendo lo stesso cammino lungo questa via acquea, avremmo avuto il privilegio di godere delle perfette dorature che adornavano la facciata di questo palazzo che, appunto, proprio da esse prende il nome. Fu il pittore francese Giovanni Charlier ad eseguire la doratura delle “pome” di pietra delle merlature, dei leoni sui capitelli d’angolo, dei cimieri sul vertice degli archi inflessi delle finestre. Oggi si può solo immaginare, con un grande rimpianto, il mutevole gioco dei cromatismi degli smalti rossi e azzurri incastrati nell’oro più splendente e che rendeva Ca’ d’Oro una delle meraviglie dell’architettura gotica di tutta Europa. Scomparsi gli ornamenti, la facciata rimane comunque un accordo perfetto tra disegno e materia, linee e decori: rivestita completamente da marmi policromi che ne alleggeriscono la materialità, essa è ripartita orizzontalmente, chiusa da colonnine tortili binate ai lati e coronata da una linea di gronda a guglie, mentre verticalmente è definita dalla cornice duecentesca che si giustappone, con la sua leggerezza, ai forti chiaroscuri delle arcate dei loggiati. La pienezza delle superfici, sulla parte destra, è subito smorzata dai motivi scultorei dei trafori a quadrilobi sulla parte sinistra, ottenendo così un risultato di estrema leggiadria e delicatezza.
La storia della Ca’ d’Oro è un succedersi di eventi, lungo un arco di circa 450 anni, che testimoniano tanto grande amore e mecenatismo quanto disamore e indifferenza, quando non addirittura vandalismo bell’e buono. Fu Marino Contarini, ricchissimo e geniale mercante veneziano, a volerla fortemente e a farla realizzare su un terreno di proprietà di sua moglie Soradamor Zen, probabilmente tra il 1421 e il 1443. Il Contarini tenne, con grande amore, una nota scrupolosa di tutti i lavori eseguiti per cui oggi conosciamo abbastanza bene la genesi dell’edificio. Sappiamo per certo che nel 1422 vi lavorò il maestro lapicida Matteo Raverti (autore della scala scoperta del cortile e del bellissimo traforo della loggia del primo piano) e che, dal 1424, vi operarono anche Giovanni e Bartolomeo Bon (padre e figlio), i quali attesero al traforo del portico, al completamento della facciata, ad una bellissima vera da pozzo di marmo broccatello veronese rosso chiazzato e all’incantevole coronamento a guglie, esempio unico nel suo genere a Venezia. Vi lavorò anche Niccolò Romanello, suo è il “fiore”, ovvero il gruppo di foglie col cimiero a forma di pigna che doveva adornare l’ingresso principale, suoi sono i capitelli delle colonne della loggia superiore e quattro capitelli per il finestrato del primo piano. Nel 1431 si rivestì di marmo tutta la facciata e fu proprio in quegli anni che intervenne il già citato Charlier. Il pittore francese trattò con biacca ad olio i merli in pietra d’Istria, gli archetti e la cornice del coronamento; passò il nero sui fondi, il rosso cinabro sui dentelli e l’oro sui punti di cui si è già detto. Lo stemma dei Contarini venne dipinto in oro e azzurro oltremare. Le rifiniture interne ed esterne erano quasi terminate nel 1434, anno in cui Leonardo Contarini, figlio di Marino, si sposò con Francesca Morosini. I lavori di abbellimento continuarono ancora per anni, e si può dire che il palazzo fosse quasi terminato quando Marino, ormai cinquantaquattrenne e rimasto vedovo, si risposò con Lucia Corner, dalla quale ebbe il figlio Pietro.
Le vicende ereditarie della Ca’ d’Oro conobbero molte traversie e, di mano in mano, nel 1791 la proprietà già risultava frazionata tra i fratelli Molin, Girolamo Zulian, Carlo Antonio Donà delle Rose, Giovanni e Pietro Venier e Antonio Zeno. Tante e tali vicende ereditarie avevano ridotto a mal partito la costruzione, decadente e rovinosa, addirittura pericolante. Così, nel 1802, un certo Giacomo Pezzi, uomo d’affari, ne acquistò una parte come “bene rovinoso”, riuscendo ad entrarne in possesso completamente nel 1808. Venduta a Moisè Conegliano, passò ancora di mano nel 1846: la acquistò infatti il principe russo Alessandro Trubetzkoi con l’intenzione di farne dono ad una famosa ballerina dell’epoca, Maria Taglioni, della quale era invaghito. La Taglioni, che a Venezia aveva trionfato danzando al Teatro Gallo a San Beneto La figlia del Danubio e La caccia di Diana, era una vera “collezionista” di palazzi sul Canal Grande. Possedeva infatti già il palazzo Giustinian Businello a Sant’Aponal, palazzo Corner Spinelli a Sant’Angelo e il palazzo Giustinian Lolin a San Samuele. Per lei, possedere la Ca’ d’Oro era come coronare un sogno, ma per la dimora del Contarini, purtroppo, si prospettarono tempi duri. La diva, nell’intento di restaurare l’edificio malridotto, incaricò a tale scopo un architetto alla moda che già si era distinto per il restauro del Teatro La Fenice devastato da un incendio: il ravennate Giovanni Battista Meduna. L’architetto si rivelò una specie di Attila per la Ca’ d’Oro; non ebbe alcun riguardo per i preziosi lavori che con tanta passione il Raverti e i Bon avevano eseguito e, senza alcun tentennamento, eliminò la bellissima vera da pozzo, distrusse la scala scoperta del cortile, tolse marmi, capitelli, pavimenti, aprì perfino nuove finestre sulla facciata. Un vero disastro che addolorò tutti gli amanti dell’arte.
Nei primi anni Novanta dell’Ottocento, il marchese Tavoli acquistò il palazzo e ne affittò gli appartamenti a due personaggi molto in vista: Pompeo Molmenti, autore di una monumentale Storia di Venezia nella vita privata, e Annina Morosini, una delle più belle e ammirate dame del gran mondo, amata perfino dall’imperatore di Germania Guglielmo II.
Ma fu nel 1894 che il destino di questo palazzo finalmente cambiò; in quell’anno, infatti, esso fu acquistato dal barone torinese Giorgio Franchetti, un vero illuminato, uomo di grande cultura e dai molti interessi, dotato di animo sensibile e innamorato dell’arte. Egli, come ci tramanda il suo amico Gabriele D’Annunzio, iniziò una vasta operazione di recupero e restauro alla quale partecipò anche in prima persona, lavorando quotidianamente al mosaico pavimentale del pianterreno che voleva simile a quello della basilica di San Marco. Perfino il Vate fu costretto più volte dall’amico Franchetti a posizionare tessere di porfido e serpentino nello stucco, come egli stesso racconta. Ma il grande merito del mecenate fu quello di cercare di riportare la Ca’ d’Oro al suo stato originario: recuperò con caparbietà, presso antiquari di tutto il mondo, gran parte di ciò che il Meduna aveva buttato via, a cominciare dalla splendida vera da pozzo dei Bon, ricostruì la scala del Raverti ricomponendola pezzo per pezzo e il portale verso la calle col “fiore” del Romanello, rifece la merlatura mutilata, ricostruì l’atrio e chiuse le finestre che il Meduna aveva aperto senza alcun criterio. Lo scopo del Franchetti era quello di creare una sede appropriata per collocare la sua notevole collezione di opere d’arte, che vantava inimmaginabili capolavori, a cominciare dal San Sebastiano di Andrea Mantegna, fino agli affreschi di Giorgione e di Tiziano tolti dalla facciata del Fondaco dei Tedeschi, che si possono tuttora ammirare nella galleria d’arte intitolata a Giorgio Franchetti con sede, appunto, presso la Ca’ d’Oro. Il barone dispose che, sia la collezione d’arte che l’edificio, passassero allo Stato italiano dopo la sua morte, avvenuta per suicidio la notte del 18 dicembre 1922. Torturato dalle sofferenze di un male incurabile, Giorgio Franchetti preferì togliersi la vita e oggi le sue ceneri riposano sotto un rocchio di colonna di porfido nel portego della sua Ca’ d’Oro. Ad imperitura memoria ci restano la meraviglia di un capolavoro rinato a nuova vita grazie al suo caparbio amore e la ricchezza della sua splendida collezione di cui oggi fanno parte dipinti italiani e stranieri, bronzi, marmi, ceramiche e medaglie soprattutto dei secoli XV- XVIII. Vale la pena ricordare, inoltre, altri dipinti notevoli qui esposti quali il Doppio ritratto di Tullio Lombardo, L’Annunciazione e il Transito della Vergine del Carpaccio e due Vedute di Venezia di Francesco Guardi.
Galleria Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro: http://www.cadoro.org/