Ca' Farsetti (Municipio)
Nei primi anni del Cinquecento i discendenti di Leonardo ancora abitavano nel palazzo che, nella notte del 3 dicembre 1524, fu in parte distrutto da un incendio che causò ingentissimi danni. Riparato, dopo varie peripezie, nel 1664 esso fu venduto alla famiglia Farsetti, di origine toscana e aggregata in quello stesso anno al Maggior Consiglio. Di certo i Farsetti erano meno illustri e di origini meno antiche della famiglia che li aveva preceduti ma certo erano ricchissimi e molto impegnati sul fronte della cultura: l’abate Filippo Vincenzo Farsetti, per esempio, fondò una scuola per giovani scultori e creò per i più bravi fra loro un premio di merito: proprio uno di quei valenti giovani fu Antonio Canova. Qui il giovanissimo Canova apprese a scolpire e per esprimere la sua gratitudine donò al Farsetti i suoi lavori giovanili: due ceste di frutta in marmo ora al Museo Correr. Ma questo palazzo fu pure celebre per una Accademia fondata dai suoi proprietari e che in origine era nata semplicemente per scherzo. Il senatore Daniele e suo fratello Tommaso, cugini di Filippo, avendo ascoltato nel 1747 un sermone molto ridicolo nel convento di San Domenico, pensarono di giocare una burla al presuntuoso predicatore. Si fecero presentare a lui e gli dissero che la sua oratoria li aveva talmente colpiti da spingerli a fondare un’Accademia letteraria, offrendogli di divenirne il capo. Era però necessario che egli si recasse al caffè Menegazzi, dove i congregati abitualmente si raccoglievano, affinché anche gli altri soci potessero giudicare il suo ingegno. Fu così che l’ignaro e vanitoso Giuseppe Sacchellari recitò i suoi versi in quel locale pubblico, fra il divertimento generale, e si vide eleggere principe “Arcigranellone” dell’Accademia dei Granelleri, la cui insegna mostrava un gufo che teneva saldi fra gli artigli due... “granelli” (testicoli).
Ben presto l’Accademia, nata in quel modo divertente, divenne un centro letterario di prim'ordine e tale restò fino al 1761, quando passò ad altra sede. Il figlio di Daniele, Antonio Francesco, diverso dai suoi avi, chiuse la galleria nel 1778, si caricò di debiti e finì per alienare tutte le opere d’arte contenute nel palazzo. Benché fosse anche lui uomo di lettere e coltivasse l’arte della botanica, dissipò in poco tempo tutto il patrimonio familiare. Morto il padre, egli vendette tutta la sua preziosa biblioteca e avrebbe venduto anche il museo di famiglia se la Repubblica non glielo avesse impedito (caduta la Repubblica, egli comunque ne donò gran parte allo zar di Russia Paolo I); dopo aver svenduto a poco prezzo i preziosi quadri della pinacoteca, morì in completa miseria nel 1808, nella lontana Russia. Il palazzo fu acquisito allora dalla sua vedova, Adriana Da Ponte, come creditrice della propria dote dissipata. Ella lo affittò ad uso albergo fino a quando, nel 1826, fu acquistato dal Municipio per farne la propria sede. Molti interventi di restauro vennero eseguiti dopo quegli anni: in particolare nel 1874 venne risistemato l’aspetto generale dell’edificio e nel 1892 venne aggiunto l’ultimo piano, e tutti questi rimaneggiamenti hanno sicuramente intaccato lo stile originario di questa costruzione che oggi presenta nella facciata una straordinaria sequenza di colonnine binate che la attraversa tutta, e che sostiene gli armonici archi rialzati, il tutto sottolineato da un poggiolo continuo. In questo balcone ogni coppia di sposi, appena pronunciato il fatidico “sì”, si fa fotografare con alle spalle il Ponte di Rialto, così come vuole la tradizione.
Il carattere tipico della casa-fondaco si osserva soprattutto nel pianterreno porticato (ciò permetteva lo scarico e il carico delle merci in maniera più agevole), che è sicuramente la parte più antica del palazzo, insieme al piano nobile. Entrambe conservano, con sufficiente leggibilità, proprio i caratteri tipici dell’architettura veneziana duecentesca, mentre le aggiunte ottocentesche, pur se nel rispetto dell’equilibrio generale del palazzo, hanno reinventato uno stile che appare stonato e poco credibile.