Palazzo Grimani di San Luca
La magniloquenza di questo palazzo che, fra tutti quelli sul Canal Grande, era stato indicato da Jacopo Sansovino come uno dei quattro più importanti, viene testimoniata anche da John Ruskin, nella sua opera Le pietre di Venezia, lo definì come «il più bello di tutti i palazzi posteriori alla definitiva forma di Palazzo Ducale [...] uno dei migliori in Europa del periodo centrale dell'architettura del Rinascimento».
Purtroppo il Sanmicheli, che comunque aveva elaborato e consegnato il progetto dell’edificio, poté seguire i lavori solo per breve tempo in quanto tre anni dopo la posa della prima pietra, nel 1559, morì. Al completamento del primo piano il Grimani dichiarò di aver già speso 2840 ducati e ancora mancava il pavimento in marmo di Verona nell’entrata e le inferiate alle finestre; fino al 1561 fu lo stesso proprietario a dirigere i lavori. La costruzione dell’ultimo piano però, viste le difficoltà, richiese la direzione di un architetto che fu individuato in Giangiacomo De Grigis che ricevette come compenso per la sua opera la somma di 14.000 ducati. Fu proprio l’aggiunta dell’ultimo piano che fa eccedere la costruzione nelle sue proporzioni e per questo motivo si è pensato che il Sanmichieli avesse previsto nel progetto originario un solo piano nobile al posto dei due attuali. Comunque può essere che questo cambiamento nei volumi della fabbrica fosse voluto e determinato dalle dimensioni dei nuovi palazzi che stavano nascendo in quel periodo a Venezia, a cominciare dal Palazzo Corner della Ca’ Granda che proprio in quegli anni stava per essere terminato. Nel 1572 morì anche il De Grigis e allora i lavori per il completamene del sottotetto furono affidati a Giovanni Antonio Rusconi, proto di Palazzo Ducale.
Sicuramente la costruzione era ultimata nel 1576, anno in cui vi furono sontuosamente ospitati i duchi di Mantova in onore dei quali fu data una festa rimasta memorabile. Essendo i Grimani grandi amanti dell’antichità classica (erano famosi collezionisti di reperti greci e romani) è lecito pensare che l’accentuato classicismo che informa la grandiosa facciata del palazzo sia stata suggerita al Sanmicheli proprio dai committenti.
Sul fronte appare tripartito da robuste fasce orizzontali e ritmato da una serie di serliane; il tema dell’arco trionfale viene applicato in modo spettacolare al portico d’ingresso e poi viene raddoppiato verticalmente al centro dei due piani nobili. Eseguiti con cura maniacale tutti gli elementi decorativi della facciata: le balaustre, i capitelli corinzi, le scanalature dei pilastri e, soprattutto, nella parte superiore della porta d’ingresso, le Vittorie, belle figure allegoriche in bassorilievo eseguite da Alessandro Vittoria. Deliziose la bella testa in chiave d’arco, la greca del basamento e le voluminose volute sotto le finestre del pianterreno.
Grandioso anche l’atrio colonnato a tre fornici che Andrea Palladio giudicava il più bello di Venezia, ispirato sicuramente da modelli romani. Quello che più ha lasciato perplessi i critici delle epoche successive è stata soprattutto l’irregolarità della pianta interna che, come qualche autore ha suggerito, potrebbe far pensare all’intenzione di costruire un “sito... piramidale“ così come, ci dice il Palladio, era stato richiesto da anonimi committenti veneziani. Comunque nei vari secoli questo edificio ha suscitato molte lodi e qualche disapprovazione (Pietro Selvatico ne criticò la semplicità delle decorazioni e la sproporzione delle finestre)
Narra la tradizione che un Grimani chiedesse un giorno in moglie una fanciulla della famiglia Tiepolo e che la richiesta venisse respinta perché il giovane non possedeva un palazzo sul Canal Grande. L’innamorato, pieno di rancore e di propositi di vendetta, avrebbe giurato di costruire una dimora tale che le sue finestre avrebbero potuto contenere il portale di Palazzo Tiepolo. Non si sa se il giovane in questione si identificasse con il committente Girolamo: fatto sta che il palazzo dei Tiepolo si trova proprio dirimpetto a quello dei Grimani, sull’altro lato del Canale.
Qui si svolsero nel 1597 le favolose feste per l’incoronazione di Morosina Morosini, moglie del doge Marino Grimani: il Bucintoro venne a prenderla con un gran corteo di imbarcazioni allestite dalle varie corporazioni e dalle gondole delle case patrizie. Quaranta gentiluomini e quattrocento gentildonne fecero scorta d’onore. Secondo la consuetudine, i consiglieri ebbero in dono non solo le borse intessute d’oro, ma anche monete d’argento recanti l’effigie della dogaressa. In tale occasione papa Clemente VIII insignì i festeggiati della Rosa d’Oro. Dopo le solenni funzioni in San Marco, ebbe luogo una giostra navale in bacino, cui parteciparono anche navigli stranieri, suscitando vasta eco in Europa. I Grimani amarono pure molto la musica e possedettero dei famosi teatri in Venezia. Si sa che uno di loro, abitante in questo palazzo, assumeva domestici solo se erano musicisti e questi per contratto si impegnavano a suonare quando e dove egli lo avesse richiesto. Il palazzo fu la dimora della famiglia fino al 1805.
La famiglia Grimani, nota fin dal X secolo e tuttora esistente, non venne annoverata tra le “vecchie“, né iscritta al Libro d’Oro prima della Serrata, perciò era considerata “nuova“. Emerse nel Quattrocento e diede alla Serenissima personalità illustri in ogni campo e tre dogi di grande rilievo: Antonio (1521-1523), Marino (1595-1605) e Pietro (1741- 1752).
Antonio era nato nel 1434. Egli si trovava in condizioni di svantaggio rispetto agli altri patrizi perché suo padre aveva sposato una popolana, il che lo privava di una parentela influente. Inoltre la famiglia viveva in ristrettezze. Tuttavia, di intelligenza viva e duttile, egli riuscì a diventare ricchissimo, tanto da poter sborsare poi l’enorme somma di 30.000 ducati per assicurare il cappello cardinalizio al figlio Domenico, natogli da una Loredan. In una cronaca del tempo sta scritto che «i mercanti Grimani quando vendeva, vendevano e quando teneva, tenevano perché in tutte le sue cose era felice... e quel che era terra e fango in mano sua diventava oro».
All’inizio della sua vita attiva egli non volle accettare cariche fuori Venezia e fu procuratore di San Marco; ma fu poi inviato nel Levante, prima quale ambasciatore e poi a combattervi. Là in breve raggiunse il grado di capitano “da Mar“ (Ammiraglio): purtroppo la sua campagna contro i turchi del sultano Bajazet II si concluse con la perdita di Lepanto (1499), e Venezia, che non ammetteva fallimenti, lo accusò di tradimento e lo esiliò. Poco dopo, però, veniva riabilitato e richiamato, e nel 1521 assurgeva al soglio dogale.
Il periodo era particolarmente difficile a causa delle contese fra il re di Francia, Francesco I, e l’imperatore Carlo V, che fecero dell’Italia il loro campo di battaglia. Tuttavia il doge seppe mantenere una politica di equidistanza con grandissima abilità, evitando così ogni pericolo alla Serenissima. Suo figlio Domenico divenne patriarca di Aquileia: fu uomo di vasta cultura, gran mecenate, collezionista di antichità e oggetti d’arte che conservava nel palazzo in Santa Maria Formosa. Il ramo della sua famiglia si estinse nel secolo scorso. Possedeva pure una ricchissima biblioteca e famoso è il suo codice miniato che da lui si chiama Breviario Grimani. Ma egli non trascorreva il suo tempo esclusivamente in severe occupazioni religiose; da buon veneziano infatti, amava le burle e celebre è rimasta quella giocata ad un amico nella sua villa di campagna, in un’estate particolarmente afosa. Si trattava di un prelato alquanto noioso, che si lamentava continuamente di soffrire il caldo. Il patriarca gli fece nascondere sotto il letto un braciere ardente... che per poco non fece morire l’ospite di soffocamento.
Come in tutte le famiglie, anche in questa non mancarono caratteri poco raccomandabili: nel 1658 la Repubblica bandiva due fratelli per numerosi delitti. Essi, figli di Vincenzo Grimani e di Marina Calergi, abitavano nel palazzo Vendramin, di proprietà della madre. I cronisti ritengono che il lato selvaggio, indomabile, mostrato dai fratelli Grimani fosse un retaggio materno: infatti nei Calergi, ricchissima famiglia venuta da Creta, vi era stata una notoria pecora nera nel Quattrocento, Giorgio, il quale si era dato alla pirateria. Catturato in mare da Pietro Loredan, si era valso del suo privilegio di patrizio per essere giustiziato a poppa della galea davanti agli ufficiali anziché davanti ai marinai. Fatto si è che la Repubblica decretò non solo il bando dei fratelli Grimani, ma fece distruggere un’ala del palazzo, quella sul giardino, e appose il famoso marchio d’infamia. Uno dei due esiliati, l’abate Vettore, si vendicò della condanna con dei versi salaci:
«Anca mi so qualcosa in materia de corni che
in ’sto mestier go speso e bezzi (denari) e giorni.
Ma dentro a quel Consegio (Consiglio) ghe ne è de giovani e veci
che se lor mi han bandito, mi li ho fati bechi».
Tuttavia egli riuscì poi a ritornare in patria perché la costosissima guerra di Candia costrinse la Repubblica a prender danaro dovunque fosse possibile, e fu quindi accettata l’offerta di Vettore di mantenere in campo, a sue spese e per un mese intero, 200 soldati, purché fosse revocato il bando nei suoi confronti.
Nonostante i Grimani fossero ricchissimi, tra le pareti domestiche essi conducevano una vita molto semplice: infatti una spia dell’Inquisizione di Stato, l’abate Pedrini, nel 1787 riferì che il procuratore Grimani prima di recarsi in Senato aveva fatto una colazione molto frugale, mangiando in piedi una fetta di polenta.
Con la caduta della Repubblica, il palazzo fu acquistato dal governo austriaco che adattò a sede della Direzione delle Poste, poi, dopo l’annessione, nel 1881 esso fu adibito a sede dell’attuale Corte d’Appello. L’importante pinacoteca dei Grimani andò dispersa: fra le varie opere quella di Andrea Vicentino dedicata allo sbarco a San Marco della dogaressa Morosini, che oggi si può ammirare al Museo Correr.